Ritratto di Antonio Canova.
Introduzione
La storia dell’arte è disseminata di geni creativi che hanno lasciato un’impronta indelebile nel mondo dell’estetica e della bellezza. Uno di questi geni, spicca in modo particolare come il più grande scultore di tutti i tempi: Antonio Canova. La sua maestria nella scultura ha conquistato il mondo e le sue opere continuano a suscitare ammirazione e ispirazione secoli dopo la loro creazione. Colui che in vita già era noto come uno scultore divino, è stato l’unico uomo comune ad essere smembrato come viene fatto con i santi: dopo la sua morte, il suo corpo fu oggetto di disputa e venne smembrato tra mano, cuore e corpo, appunto. Tutto ciò dimostra la sua infinita grandezza, nota già quand’era in vita, e non risulta alquanto strano il fatto che sia nato proprio oggi, nel 1757, in occasione della festa di tutti i santi.
La Vita e il genio universale (scultore, pittore, architetto, diplomatico, sovrintendente)
Antonio Canova nacque a Possagno (Treviso) il 1° novembre 1757. Proveniva da una famiglia di scalpellini, architetti e proprietari di cave. Il padre, architetto e lavoratore della pietra, morì quando Antonio aveva solo quattro anni. Così il piccolo Canova fu affidato al nonno Pasino, mentre la madre si risposò e si trasferì a Crespano.
Il nonno Pasino, abile tagliapietre noto per i suoi lavori in chiese e ville, intuì nel nipote un talento straordinario e lo istruì alla lavorazione della pietra. Canova fu introdotto alla pratica scultorea nel cantiere di Villa Falier, dove si distinse subito per le sue eccezionali doti. Giovanni Falier, ammirato dal giovane, decise di occuparsi della sua formazione e lo affidò alla bottega dello scultore Giuseppe Bernardi.
La leggenda vuole che l’ammirazione di Falier sia nata durante una cena di nobili veneziani, quando il piccolo Antonio, allora bambino, scolpì nel burro un leone di San Marco dalle ali spiegate, tanto perfetto da lasciare tutti stupefatti.
Nel 1768 Canova si trasferì a Venezia, dove entrò nella bottega del Torretti. L’esperienza lagunare fu decisiva: la città, da sempre culla di arte e cultura, offriva al giovane scultore la possibilità di ammirare i capolavori di Tiziano, Tintoretto, Veronese e Palladio. Qui maturò il suo gusto per l’arte classica e apprese anche le capacità imprenditoriali necessarie a gestire una bottega propria.
A Venezia ebbe modo di studiare le antiche sculture greche conservate nella galleria di Ca’ Farsetti, nel quartiere di Rialto. Già in questi anni Canova trattava il marmo con una maestria tale da farlo apparire duttile come la creta, e questa precoce abilità gli procurò i primi incarichi: i due celebri Canestri di frutta, oggi al Museo Correr, realizzati nel 1773.
Appassionatosi ai testi classici, Canova lesse le Metamorfosi di Ovidio, da cui trasse ispirazione per l’opera Orfeo ed Euridice, anch’essa conservata al Correr. Il successo fu tale da avviare la sua ascesa verso l’olimpo di più grande scultore di ogni tempo.
Dalla giovinezza veneziana alla consacrazione romana
L’apice del periodo giovanile fu raggiunto con Dedalo e Icaro, realizzato per Pietro Vettor Pisani, che rappresentò la sua consacrazione artistica. Canova vi combinò idealizzazione classica e naturalismo monumentale: il giovane Icaro incarna la perfezione ideale, mentre Dedalo, con il volto solcato dalle rughe, restituisce il segno del tempo e dell’esperienza.
Dopo questo capolavoro, Canova venne nominato nel marzo 1779 membro dell’Accademia Veneziana, alla quale donò in segno di riconoscenza un Apollo in terracotta. Rifiutò tuttavia una cattedra d’insegnamento, spinto dal desiderio di perfezionarsi a Roma, la culla dell’antico e del Neoclassicismo.
In un’epoca dominata a Venezia dal Rococò di Tiepolo e dal Vedutismo di Canaletto, Canova partì nell’ottobre del 1779 e giunse a Roma il 4 novembre insieme all’architetto Gianantonio Selva. Qui fu accolto dall’ambasciatore veneto Gerolamo Zulian, che gli mise a disposizione uno studio e un alloggio a Palazzo Venezia.
A Roma, Canova visse con entusiasmo: studiò le statue dei Musei Vaticani, fra cui l’Apollo del Belvedere, frequentò l’Accademia del Nudo e i teatri della capitale, mentre grazie a Zulian colmò le proprie lacune culturali, imparando l’italiano letterario, il francese e l’inglese, e approfondendo i testi classici greci e latini.
Tra il 1780 e il 1783 soggiornò anche a Napoli, dove ammirò la collezione Farnese, la Pudicizia di Antonio Corradini e il Cristo velato di Sanmartino, che tentò invano di acquistare. Visitò inoltre Paestum, Pompei ed Ercolano, rafforzando la sua ammirazione per l’antico.
I grandi capolavori
Di ritorno a Roma, realizzò Apollo che s’incorona, che lo impose definitivamente all’attenzione della critica. Seguì poi il Teseo vincente sul Minotauro (1783), capolavoro di armonia e compostezza classica, in cui Winckelmann avrebbe riconosciuto la “nobile semplicità e quieta grandezza” dell’arte greca.
Da quel momento le commissioni si moltiplicarono. Tra il 1783 e il 1784 Canova realizzò il monumento funebre a papa Clemente XIV, nella Basilica dei Santi Apostoli, che gli valse 10.000 scudi e la fama internazionale.
Il successo di questo sepolcro portò alla commissione del monumento a Clemente XIII per la Basilica di San Pietro. L’opera suscitò ammirazione universale: Arduino Colasanti scrisse che “sembra una figura viva che respira”.
Per riposarsi dal lavoro incessante, Canova soggiornò a Napoli, dove ricevette un’altra prestigiosa commissione: il gruppo di Amore e Psiche, divenuto una delle sculture più celebri della storia dell’arte.
L’opera, ispirata alla favola di Apuleio, rappresenta il culmine della concezione canoviana di bellezza ideale: i corpi sembrano fluttuare, le superfici sono levigate fino a sembrare traslucide, e l’abbraccio dei due amanti forma un intreccio armonico che si dissolve nella luce. Canova riesce a trasformare il marmo in carne viva, fondendo grazia, erotismo e spiritualità.
L’opera segnò il passaggio dal Neoclassicismo al Romanticismo, e consacrò Canova come “il nuovo Fidia”. La versione conservata all’Ermitage di San Pietroburgo fu donata all’imperatrice Caterina II in segno di riconoscenza.
Maturità artistica e gloria universale
Negli anni successivi Canova produsse capolavori come Venere e Adone, Creugante e Damosseno e Ercole e Lica, in cui affrontò temi di drammaticità eroica, dimostrando che la sua arte poteva unire grazia e forza. Melchiorre Cesarotti scrisse che l’Ercole e Lica era “una tragedia sublime, che la penna di Euripide può invidiare allo scalpello di Canova”.
Con l’avvento di Napoleone, le guerre sconvolsero l’Europa. Canova, profondamente turbato, scrisse all’amico Falier: “Vedo l’Italia tutta, anzi l’Europa tutta, talmente rovinosa, che mi sento morire per il mio povero Stato di Venezia che tanto amo”.
Dopo un periodo di ritiro a Possagno, durante il quale si dedicò alla pittura e ai bozzetti, tornò a Roma nel 1799. Qui realizzò Teseo in lotta con il Centauro, opera di grande dinamismo, acquistata poi dall’Imperatore Francesco I d’Austria per il Tempio di Teseo a Vienna.
Negli stessi anni modellò le celebri Danzatrici, opere di grazia e leggerezza assoluta. Leopoldo Cicognara scrisse che “Canova fu ispirato unicamente dalle Grazie”. Le tre sculture, tutte diverse tra loro, rappresentano la perfezione del movimento e della forma.
Paolina Borghese e Napoleone
Tra le opere più note vi è la Venere vincitrice, ritratto scultoreo di Paolina Bonaparte Borghese, sorella di Napoleone, ispirato alle Veneri di Tiziano e Giorgione. L’opera, per la sua audace sensualità, suscitò scandalo ma anche un entusiasmo senza precedenti: oggi è il simbolo della Galleria Borghese di Roma.
Napoleone stesso volle essere ritratto da Canova come Marte pacificatore. Lo scultore lo rappresentò nudo, secondo i canoni della bellezza ideale. Quando l’imperatore vide la statua, la fece nascondere al Louvre, dicendo: “Nudo in piazza non ci andrò mai”. Dopo la sua caduta, l’opera fu acquistata dagli inglesi e donata al duca di Wellington, vincitore a Waterloo.
Canova spiegò la sua scelta con parole rimaste celebri: “Il linguaggio sublime dello statuario è il nudo: la bellezza ideale del corpo umano non può essere invasa da abiti, ma dev’essere caratterizzata dall’armonia perfetta di tutte le sue parti”.
Il mito oltre l’Europa
Nel 1818 Canova ricevette dagli Stati Uniti una commissione straordinaria: la statua di George Washington. Thomas Jefferson, terzo presidente americano e ammiratore di Canova, lo considerava l’unico scultore degno di rappresentare il padre fondatore della nazione.
Canova studiò a fondo la figura di Washington e lo raffigurò nell’atto solenne di rinunciare al potere, secondo le parole di Carlo Botta: “Felice per la nostra indipendenza, io rassegno il mio mandato”.
Quest’opera simbolica sancì definitivamente il prestigio universale di Antonio Canova, artista che, attraverso la purezza del marmo, seppe incarnare, come nessun’altro, l’ideale eterno della bellezza e dell’armonia, unendo la perfezione classica all’emozione umana.
Lo stile
A Possagno sorge il Museo di Canova, autentico scrigno della memoria e del genio del più grande scultore neoclassico e di tutti i tempi. Esso comprende la biblioteca, la casa natale dell’artista e la celebre Gipsoteca, straordinaria raccolta dei gessi preparatori che Canova realizzava come modelli per le sue opere in marmo. Fra queste forme bianche e silenziose, si percepisce la presenza spirituale dell’artista: vi sono custodite le anime di gesso che egli ha pazientemente modellato, plasmando la materia fino a renderla simbolo di una bellezza capace di trascendere il tempo, di innalzare lo spirito umano oltre la contingenza del reale.
Accanto ai grandi modelli, si conservano anche i bozzetti in terracotta e creta, piccole ma preziose testimonianze del momento in cui il disegno prende corpo nello spazio. La Gipsoteca canoviana, la più vasta al mondo dedicata a un solo artista, nacque nel 1832 per volontà di Giovanni Battista Sartori, fratellastro dello scultore, che trasferì a Possagno i modelli originariamente custoditi nella bottega romana, al riparo da plagi e imitazioni che a Roma si moltiplicavano a causa dell’invidia e dell’ammirazione dei contemporanei.
Il processo creativo di Canova era di una meticolosità quasi scientifica. Dapprima elaborava un disegno preparatorio, quindi un bozzetto in creta. La statua definitiva veniva poi costruita a grandezza naturale in argilla, suddivisa in sezioni e rivestita di gesso, dal quale ricavava il modello per la trasposizione nel marmo. Lisciava con cura le superfici, applicava puntini di bronzo per calcolare le distanze e trasferiva le misure al blocco di marmo con l’aiuto di strumenti da lui stesso inventati. Infine, armato di raspe, pomice, paglia e fieno, egli trasformava la pietra in una carne viva e palpitante. Il suo celebre trapano, usato con forza appoggiandolo sul petto, gli procurò gravi lesioni interne che gli causarono la morte nel 1822, a sessantacinque anni.
L’“ultima mano”, come scrisse Leopoldo Cicognara, rappresentava per Canova il momento più alto dell’arte, quello in cui l’opera si sublimava in perfezione. Hayez, che lo frequentò, ne ricordò l’instancabile laboriosità e la disciplina ferrea: Canova lavorava circondato dai suoi allievi, che si occupavano delle prime fasi, lasciandogli sempre uno strato sottile di marmo da rifinire personalmente, là dove l’artista infondeva il soffio vitale.
Il suo metodo, basato su precisione progettuale e sensibilità poetica, univa razionalità e intuizione. Egli stesso preferiva la creta al gesso, materia più duttile e sincera, con cui poteva studiare proporzioni, luce e movimento attraverso un’armatura interna di ferro e legno. Una volta definita la forma, la traduceva in marmo secondo la tecnica della “forma persa”, distruggendo la matrice di gesso per ottenere un’unicità irripetibile. Terminata la sbozzatura, il maestro interveniva con l’ultima mano e infine il lucidatore applicava una patina epidermica che donava alla superficie la diafana luminosità della pelle umana.
Secondo Giulio Carlo Argan, in Canova “la forma non è rappresentazione, ma cosa stessa sublimata, trasposta dal piano sensibile a quello del pensiero”. Canova compie nell’arte ciò che Kant, Goethe e Beethoven compirono rispettivamente nella filosofia, nella letteratura e nella musica: il passaggio dal sensismo all’idealismo, dalla percezione empirica alla purezza della forma spirituale.
In quarantotto anni di lavoro, Canova fu un instancabile artefice del bello: lasciò più di 180 sculture, 22 dipinti, numerosi disegni e studi, oltre al progetto architettonico del Tempio di Possagno. Riconosciuto dai suoi contemporanei come “il Nuovo Fidia”, superò per fama Michelangelo e Bernini, divenendo modello universale di grazia e perfezione. Pietro Giordani affermò che con le opere canoviane la scultura mondiale aveva raggiunto il suo massimo splendore, mentre Stendhal lodò la naturalezza del suo genio.
La sua influenza si estese a numerosi artisti europei — Chaudet, Flaxman, Westmacott, Chinard — e durante il Romanticismo Canova divenne simbolo dell’orgoglio nazionale italiano, fino a essere considerato un genio tutelare del Risorgimento. Nel Novecento, studiosi come Hugh Honour e Mario Praz ne riconobbero la funzione di ponte tra antico e moderno, tra ideale e sensibilità contemporanea.
Le sue sculture, in marmo bianco e perfettamente levigate, incarnano un classicismo puro e assoluto: corpi idealizzati, gesti misurati, psicologie silenziose ma intense, composizioni di armonica staticità e delicata energia. Canova restituì alla materia l’armonia dell’antico, filtrandola attraverso la ragione e l’equilibrio, e creando un’idea di grazia in cui sensualità e ideale convivono in perfetta misura.
L’eredità canoviana attraversa i secoli. Auguste Rodin, nella sua Eterna Primavera (1884), riprese il tema amoroso di Amore e Psiche, ma lo tradusse in chiave più terrena e carnale: mentre in Canova la passione è sublimata nello sguardo, in Rodin esplode nella fisicità dei corpi. Il loro dialogo rappresenta il passaggio dall’eros spirituale al desiderio umano, pur mantenendo comune la tensione verso l’assoluto.
Nel Novecento, Arturo Martini trovò in Canova un maestro ideale: nelle sue terrecotte e bronzi – dal Figliol Prodigo (1926) alla Donna che nuota sott’acqua (1941-42) – riecheggiano la compostezza, la semplicità e il senso di mistero della scultura canoviana. Martini stesso affermava di voler reinterpretare il passato con spirito moderno, depurandolo dall’accademismo e restituendogli vitalità poetica.
Echi di Canova risuonano anche nella contemporaneità. Marc Quinn, con la serie The Complete Marbles (1999-2005), reinterpreta la bellezza classica rappresentando corpi mutilati con l’armonia e la compostezza delle statue antiche, ribaltando così il concetto di perfezione. Jago, giovane scultore italiano, ne incarna invece la disciplina e la spiritualità della materia: nella sua arte il marmo torna vivo, plasmato con iperrealismo ma intriso della grazia ideale canoviana.
Questi artisti non intendono superare Canova, ma dialogano con lui. Ne raccolgono l’eredità tecnica e filosofica, trasformando il marmo in un linguaggio universale, in cui la ricerca della bellezza rimane — come per Canova — un atto di fede nell’eternità dell’arte.
- Salito presto in alta fama, fu l’ultimo raggio di gloriosa luce che la cadente Repubblica, prima della morte, mandò. Per lui la scultura si rialzò dall’avvilimento, nel quale giaceva dopo i tempi del Buonarroti, rinfrancata soltanto da qualche tratto di genio, nei grandiosi monumenti del Bernini. Ricondottala all’ufficio d’imitare le bellezze della natura dove si trovavano, seppe in ogni maniera di soggetti esprimere i sentimenti più svariati e più nobili dell’animo umano, in stile or severo ora mesto; e nella grande composizione distinguersi per l’altezza dei pensieri. (Enrico Poggi)
- Se non avessimo avuto il Canova, grandissimo dinanzi ad ogni scuola, male sapremmo dire chi avrebbe potuto sostenere la riputazione artistica dell’Italia nel primo ventennio del secolo presente (Marco Tabarrini).
- Quel che la natura poteva ma non volle fare, bellezza e Canova possono! Al di là della forza di immaginazione, al di là dell’arte sconfitta del Poeta, con l’immortalità come sua dote, ammirate la Elena del cuore! (George Byron sul busto di Elena del Canova).
Ciò che mi rende più impaziente è vedere l’effetto che l’opera produrrà sulle anime del pubblico. (Antonio Canova).
La forma plastica non rappresenta la figura, ma la sublima, ne trasforma l’essenza, […] la cala e la isola nello spazio reale e, isolandola, la idealizza […]: forma-oggetto che risolve in sé ogni relazione spaziale, si racchiude in un involucro impenetrabile, si pone come presenza altamente problematica dell’ideale nel reale, dell’assoluto nel relativo. (Antonio Canova).
Antonio Canova fu lo scultore del bello, della grazia, della monumentalità. Fu lo scultore che seppe eguagliare e superare lo splendore delle antiche sculture greche e romane e per questo, fu lo scultore divino, lo scultore per eccellenza, il più grande di ogni epoca, capace di dare leggerezza e sinuosità al marmo, dotandolo di vita e psicologia, capace di trasformare quel pesante materiale in tenera carne e al contempo in vigore dinamismo e capace con la sua arte di incantare gli occhi di chi la osserva, entrando in quella dimensione divina che contraddistingue il suo tocco, unico e ineguagliabile, di artista. (Dario Romano di Arte Divulgata).
Antonio Canova, Amore e Psiche.
Canova, Teseo e il Centauro.
Canova, Le Tre Grazie.
Canova, Ercole e Lica.
Canova, Paolina Borghese
Canova, Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria.
Gipsoteca Canoviana a Possagno.
Canova, Tempio Canoviano di Possagno.
Articolo di Dario Romano. Per fonti e approfondimenti, il contenuto è tratto dai miei libri Antonio Canova: Il Divino scultore e il Regno della perfezione ideale, Antonio Canova: Diplomatico e Sovrintendente: Il Genio Universale: non solo scultore, pittore ed architetto, Antonio Canova: Paolina Borghese e l’eterna bellezza, Antonio Canova: Amore e Psiche: L’incarnazione dell’amore, della vita e della perfezione nella scultura.
