Storia di Venezia: l’Ottavo Doge – Giovanni Galbaio (787–803)
L’ascesa al dogado di Giovanni Galbaio, nell’anno 787, segna un punto di svolta per la giovane entità veneziana. Pur ancora profondamente legata all’Impero Bizantino, Venezia comincia a manifestare le prime, timide ambizioni autonome. La sua nomina avvenne senza un’elezione tradizionale: Giovanni era già stato associato al potere dal padre, Maurizio Galbaio, inaugurando così una prassi proto-dinastica che lasciava intravedere un tentativo di trasformare il dogado in una carica ereditaria. Un precedente che avrebbe acceso, da quel momento in poi, un conflitto tra potere personale e bene collettivo, costantemente presente nella storia della Serenissima.
La vendetta di Grado e l’ombra dei Franchi
Giovanni Galbaio, fin dai primi anni del suo dogado, fu ossessionato da un obiettivo: vendicare l’umiliazione inflitta ai mercanti veneziani da parte del patriarcato di Grado. L’espulsione dalla Pentapoli — regione della costa adriatica centro-orientale soggetta all’influenza papale — aveva danneggiato gravemente i traffici veneziani, compromettendo una delle principali arterie commerciali dell’Adriatico settentrionale. Ma non si trattava solo di commercio.
Il patriarcato di Grado, in quel periodo, rappresentava una scomoda controparte politica e religiosa: fedele al papato e filo-franco, costituiva una minaccia alla crescente centralità veneziana. La rivalità tra Venezia e Grado rifletteva lo scontro fra due mondi: da una parte l’influenza bizantina, dall’altra l’espansione del potere carolingio, incarnato da Carlo Magno.
Già nel 788, la conquista franca dell’Istria lasciava presagire una pressione sempre più diretta sulle lagune. Venezia si trovava così stretta tra due giganti: l’Impero Carolingio a ovest e quello Bizantino a est. In questo fragile equilibrio, ogni mossa poteva significare la sopravvivenza o il crollo.
Bisanzio, Carlo Magno e l’Impero che non fu
In teoria, Bisanzio sarebbe stato l’alleato naturale per Venezia, ma l’Impero d’Oriente attraversava un momento particolarmente delicato. L’imperatrice Irene, reggente e poi sovrana a pieno titolo, era concentrata su due fronti: da un lato, la convocazione del Secondo Concilio di Nicea (787) per porre fine all’iconoclastia, e dall’altro, un’ambiziosa strategia diplomatica volta a legittimarsi anche in Occidente. L’idea di un matrimonio con Carlo Magno — che avrebbe potuto ricomporre l’unità dell’antico Impero Romano — fu seriamente presa in considerazione, ma sfumò rapidamente.
Nel frattempo, l’Occidente si muoveva in direzione opposta: il giorno di Natale dell’800, Carlo Magno fu incoronato a Roma da papa Leone III come Imperatore del Sacro Romano Impero, sancendo così la rottura definitiva con Costantinopoli e rafforzando il blocco franco-papale. Per Venezia, tutto questo significava che non avrebbe potuto contare stabilmente né su Bisanzio né sui Franchi, e che il gioco diplomatico andava affrontato con cautela estrema.
L’eccidio di Grado e il tramonto dei Galbaio
Nonostante il clima di instabilità, Giovanni Galbaio riuscì a consolidare ulteriormente il potere della sua famiglia. Nel 796 ottenne dall’imperatore bizantino la conferma della co-reggenza del figlio Maurizio II, perpetuando così la linea dinastica dei Galbaio. Ma fu proprio questa sicurezza che lo condusse alla rovina.
Nel 802, Maurizio II venne inviato con una piccola flotta a Grado per vendicare l’antico affronto. La spedizione si trasformò in un bagno di sangue: la città fu messa a ferro e fuoco e il patriarca Giovanni fu gettato da una torre, per poi essere decapitato. L’efferatezza del gesto scioccò profondamente l’opinione pubblica veneziana e, soprattutto, alienò le simpatie di Bisanzio. L’Impero, nel frattempo, aveva riallacciato relazioni più stabili con i Franchi e non poteva più permettersi di tollerare un Doge fuori controllo e responsabile di atti così gravi contro un alto prelato cristiano.
Secondo la leggenda, le macchie di sangue del patriarca rimasero visibili ai piedi della torre per molti anni, simbolo eterno della colpa e del peso della violenza politica. L’episodio contribuì al crollo della legittimità del regime dinastico dei Galbaio.
La rivolta e l’esilio
Nel 803, una rivolta capeggiata dai filofranchi scoppiò a Malamocco, un centro di grande importanza strategica. La sommossa si estese rapidamente a Eraclea, all’epoca una delle capitali storiche veneziane, e travolse i Galbaio. Giovanni e Maurizio furono costretti a fuggire: secondo alcune fonti trovarono rifugio a Mantova, altre suggeriscono che Maurizio si sia diretto in territorio franco. La loro sorte finale è avvolta nel mistero: non si hanno notizie certe della loro morte, e nessuna fonte coeva offre dettagli attendibili.
Questo episodio sancì anche l’inizio della fine del modello di governo “familiare”, aprendo la strada a una progressiva istituzionalizzazione del potere dogale. A livello geografico e politico, la caduta dei Galbaio accelerò lo spostamento del baricentro veneziano da Eraclea e Malamocco verso le isole centrali della laguna, in particolare Rialto — che sarebbe poi diventata il cuore pulsante della futura Venezia.
Epilogo: la lezione dei Galbaio
Sebbene Maurizio II fosse stato associato formalmente al potere, non fu mai riconosciuto ufficialmente come Doge. La sua figura resta quella di un co-reggente violento e tragico, artefice involontario della fine della dinastia paterna. La sua breve esperienza al potere mostra quanto fosse ancora instabile la struttura politica della Serenissima, in bilico tra influenze esterne e tensioni interne.
La parabola dei Galbaio offre una prima lezione fondamentale nella storia di Venezia: il potere personale, quando non sorretto da consenso e legittimità, conduce inevitabilmente al tracollo. Una lezione che i successivi dogi avrebbero fatto propria, contribuendo alla nascita di un sistema politico più complesso e condiviso, destinato a durare secoli.
